“Il lavoro alla scrivania non mi bastava. Avevo una sorta di schizofrenia professionale: da una parte le elucubrazioni intellettuali sugli scrittori dei Paesi mediorientali, dall’altra, il desiderio incontenibile di partire, viaggiare”. Pian piano, come quella famosa goccia d’acqua che leviga le pietre e le plasma secondo i capricci della sua fantasia fino a scavarle, il ‘tarlo del viaggio’ ha ultimato il suo lavorìo, e Laura Silvia Battaglia ha deciso di partire per terre lontane e pericolose, ha imparato lingue antiche piene di suoni misteriosi, ha registrato voci, filmato volti, tradotto in parole fatti che lei, ma soprattutto i suoi occhi, avevano visto. Nata a Catania, laureata in lettere classiche e diplomata in pianoforte, Laura Silvia Battaglia, oggi giornalista per “Avvenire” e freelance, tra gli altri, per i settimanali “Terre di Mezzo”, “Left” e vari network radiofonici, dopo una collaborazione decennale con il quotidiano “La Sicilia”, decide di intraprendere la strada del professionismo, e parte per Milano.
Lì frequenta la Scuola di giornalismo della Cattolica, dove oggi insegna, quando non è in viaggio nelle zone di guerra e di conflitti etnico-religiosi a raccogliere testimonianze e materiale per scrivere reportage e ‘fabbricare’ video inchieste, con le quali ha partecipato (vincendo) a premi giornalistici prestigiosi. “La necessità di partire, latente fino ad un certo punto, è sfociata – confessa la giornalista catanese – grazie ad un documentario su Maria Grazia Cutuli, da lì ho capito che la mia strada era quella”. Il documentario sulla Cutuli, inviata del Corriere della Sera assassinata in Afghanistan, del quale la Battaglia è co-produttrice, le è valso il premio Giancarlo Siani 2010.
-Entrambe catanesi, entrambe giornaliste, entrambe inviate in aree di crisi: quale aspetto della Cutuli e della sua vicenda l’ha maggiormente colpita?
“Il suo modo di fare la professione, l’esigenza di sganciarsi il più possibile dai meccanismi legati alla redazione, dall’imposizione di scrivere da una sedia, di ricopiare e incollare notizie che vengono dall’esterno. Maria Grazia era una persona inquieta ed è andata verso le storie, verso la storia, non l’ha subita da una scrivania. Di lei mi ha colpito la determinazione: ogni volta che era in ferie cercava di andare in posti dei quali scriveva durante l’anno ma nei quali non era mai stata. La cosa più interessante che fece fu che quando chiuse “Epoca”, rivista per la quale collaborava: anziché piangersi addosso, prese i soldi della liquidazione e andò a fare un corso per lavorare nelle Nazioni Unite, cercando in questa situazione di difficoltà personale di arricchire la sua professionalità. Un’altra particolarità è che si preparava sempre prima di viaggiare, studiava molto, aveva una naturale curiosità verso le lingue; era molto interessata alle vicende delle persone, del popolo, andava alla ricerca delle storie delle donne. Per tutto questo è un modello anche per me”.
-Quanto è difficile essere obiettivi quando si raccontano fatti di guerra?
“Dipende dal luogo in cui ci si trova. Quando si va in zone di questo genere ci sono fonti diverse e ognuna vuole vedere il suo punto di vista. Solo che più elementi si hanno a disposizione e meglio può essere ricostruito lo scenario che si ha davanti: in situazioni economiche al limite dell’impossibile, è difficile rimanere obiettivi perché la realtà si staglia davanti agli occhi in tutta la sua drammaticità. Al rientro non si possono continuare a fare discussioni da salotto o accontentare tutti per questioni di par condicio. Spesso i messaggi sono mediati, soprattutto dalla politica, ma io credo a quello che vedo davanti ai miei occhi, l’obiettività è quello che c’è davanti agli occhi. Ad esempio in Jugoslavia la guerra è stata combattuta casa per casa, e in Kosovo per ogni cimitero serbo c’è sempre accanto un cimitero albanese, ciascuno racconta eccidi terribili compiuti dall’altra parte. A quel punto non resta che la sospensione del giudizio. D’altra parte un giornalista non è uno che deve dare risposte, non siamo oracoli viventi, ma testimoni. Noi abbiamo porzioni di realtà da raccontare, in quella porzione probabilmente sai quale è la verità che hai visto coi tuoi occhi, però rimane una fetta, non è un quadro completo”.
“Proprio questo dovremmo fare, evitare il lavaggio del cervello, perché è ciò che vuole la propaganda politica, che ad ogni livello intende dare delle certezze a gente che non sa quali domande porsi”.
-Crede che i media possano, in qualche modo, svolgere un ruolo di ‘operatori di pace’?
“No, credo che nel mondo in cui siamo, caratterizzato dalla guerriglia globale e trasversale, i media, soprattutto i grandi media, siano parte essi stessi del conflitto, parte del sistema. Non possono essere operatori perché sono grandi aziende che spostano la pubblicità in base a dove si sposta il pubblico, mentre un piccolo media, un freelance può essere un operatore di pace. Credo che Enzo Baldoni lo fosse, infatti era molto più esposto e ha fatto la fine che ha fatto”.
-La paura più grande, prima di partire per un reportage? E la paura più grande, al rientro?
“Prima di partire, la paura più grande è che possa succedermi qualcosa… sì, la paura di morire o, peggio ancora, di rimanere incidentata tutta la vita, soprattutto per le persone a me care. Quando torno subentra la tensione di fare bene, di dare forma, concretezza al lavoro fatto. Seleziono il materiale, i contenuti, e li organizzo, sento la responsabilità di scegliere bene”.
-L’incontro di viaggio che non crede di poter dimenticare?
“Ero in Afghanistan, in un villaggio vicino Harat, dove avevano aperto una scuola intitolata proprio a Maria Grazia Cutuli. C’erano giornalisti, militari, bambini e autorità, io avevo il giubbotto antiproiettile ma cercavo di non sembrare invadente nel fare le mie riprese. Durante la manifestazione il provveditore locale si avvicinò e mi chiese su un foglio, in inglese, come mi chiamavo. Io risposi, ma in persiano. Lui non se lo aspettava, spesso nemmeno i militari conoscono la lingua del posto. Alla fine della manifestazione mi chiese di seguirlo e mi presentò il capo del villaggio, al quale disse di essere rimasto sorpreso per aver conosciuto una giornalista che scriveva in persiano. In segno di stima mi presentò sua moglie, alla quale dissi “benvenuta madre mia”, che nella loro cultura è un segno di grande rispetto. Lei mi abbracciò e tutti applaudirono. Questo è stato forse l’unico vero episodio di integrazione culturale che ho vissuto in Afghanistan. Io non ero un’occupante, ma semplicemente una donna che incontrava un’altra donna”.
-Se potesse fare un ultimo viaggio in aree di crisi, con quale storia vorrebbe tornare?
“Si spera sempre di trovare delle belle storie. Mi piacerebbe tanto potere raccontare un storia in cui qualcuno che ha subito l’orrore delle guerre e avrebbe tutti i motivi per odiare un altro venisse convinto che vale invece la pena di amarlo. Spero un giorno di raccontare una storia che faccia pensare a chi la legge che esiste ancora una speranza nel mondo di essere tutti uguali e di amarsi”.