“Un tempo si diceva che tutte le strade portano a Roma, ma ora possiamo dire che tutte le strade portano nei negozi. Come se la nostra felicità fosse lo shopping, come se le risorse fossero infinite. Ma sarà disastroso per le nuove generazioni questo sistema che sottopone il nostro pianeta ad una pressione enorme, forzando ogni limite e generando la miseria degli esclusi. Dobbiamo fermarci, perchè stiamo vivendo al di sopra dei nostri mezzi, sulle spalle dei nostri figli”.igmunt Bauman
Quest’allarme lanciato dal palco dell’auditorium Santa Chiara al Festival dell’Economia 2011 racchiude forse il pensiero fondamentale del sociologo polacco Zygmunt Bauman: ora che ci ha lasciato a 91 anni dovremo attingere a lungo alla folta chioma dei suoi giudizi illuminati, liberi ed esigenti.
Nel groviglio della post-modernità il pensatore di origine ebraica, forgiato dai drammi del secolo scorso, ha saputo sciogliere i nodi essenziali offrendoci un’analisi tanto lucida quanto ultimativa. Per Bauman, infatti, dobbiamo puntare a invertire l’aumento della disuguaglianza globale (“il paese più ricco, il Qatar conduce uno standard di vita 428 volte più alto del paese più povero, lo Zimbabwe”), andando prima a scardinare il principio base della società occidentale, l’incentivo ai consumi, che spinge a inseguire sempre nuovi bisogni materiali: “Non si acquista più un bene perché se ne ha bisogno – spiegava – , ma perché si è spinti a desiderarlo”.
Più ancora che per l’ormai logora metafora della modernità liquida – che alimenta i rapporti fragili e disincentiva quelli stabili – siamo debitori a Bauman per l’autoritratto dell’”Homo consumens”, titolo del libro pubblicato dalla “nostra” editrice Erikson che porta in copertina dei colombi insaziabili e voraci. Quelli siamo noi, “sciame inquieto di consumatori”, sempre alla ricerca di nuovi beni da esibire come status symbol arrivando anche alla “mercificazione” della moralità e degli affetti. Dall’altra parte invece, ci sono “loro”, gli esclusi di massa che vivono nella miseria di ghetti metropolitani e nelle discariche foraggiate dal progresso economico globalizzato. “Loro sono sempre troppi, loro sono quelli che dovrebbero essere sempre di meno o, meglio ancora, non esserci proprio”, denunciava il saggio Zygmunt in “Vite di scarto” (Editrice Laterza), senza timore di opporsi al dogma malthusiano della sovrappopolazione o di essere tacciato di idealismo utopico, come ha ribadito personalmente per “Il Margine” nell’ultima conferenza a Trento.
In questo produrre spazzatura, rifiuti umani da lasciare nei propri Paesi o da accumulare nelle periferie, Bauman vede anche la strategia miope di tante politiche anti immigrazioni: “Ai rifugiati non si attribuisce alcuna funzione – è il suo appunto che riprendiamo alla vigilia della Giornata dei Migranti – e fuori dal loro attuale luogo di soggiorno, la discarica, sono un ostacolo e un fastidio. Dentro, sono dimenticati. Accumulati indiscriminatamente, senza distinzioni, individualità. A meno che non siano destinati al riciclaggio, ma si preferisce farli permanere nella loro esclusione”.
A chi gli è stato vicino negli ultimi anni, come l’amico traduttore trentino Riccardo Mazzeo (“mi ha insegnato fra l’altro a preferire l’autobus al taxi – ricorda – per poter osservare le persone e relazionarsi con loro”), Bauman confidava di essere comunque fiducioso, inguaribilmente ottimista. Generoso e attento ai più deboli, aveva inseguito per tutta la vita un’idea di felicità condivisa con gli altri, planetaria. Ma la riteneva possibile solo fuori dal bunker dell’individualismo, sgretolando l’idolo economicistico della produzione illimitata: “Possiamo discutere come produrre la pagnotta, come distribuirla o come produrne un’altra – spiegava con un’altra delle sue immagini saettanti – Ma le risorse per produrre tutte le pagnotte che desidereremmo non sono infinite”.
A settembre aveva incontrato volentieri Papa Francesco, facile immaginare il dialogo di reciproca sintonia: “Ci sono alternative al consumismo – ripeteva infatti Bauman, cantore dell’interdipendenza – le relazioni, le famiglie, i quartieri, le comunità, il significato della vita. Ci sono enormi risorse di felicità umana che non vengono sfruttate”.
A questo punto il grande professore si faceva amico della porta accanto, saggia guida ad una conversione etica: cominciamo, diceva, “a trovare il tempo per prendersi realmente cura dei nostri cari” o “per riconoscere il dolore, soprattutto quello degli altri”, così da intraprendere “un cammino autenticamente umano, basato sulla reciproca comprensione”.
Diego Andreatta
direttore di “Vita trentina”